È l’orizzonte estremo della ricerca di base. Quando si parla di missioni planetarie, le curiosità umane rasentano l’infinito. Ma servono pazienza e cura dei dettagli per soddisfarle una a una. La missione Cassini insegna. La fisica dell’EURAC Claudia Notarnicola racconta il dietro le quinte.

Richiamate alla memoria la scena della partenza di una esplorazione spaziale. Fuori, sulla rampa, il razzo. Dentro, nella sala operativa, decine e decine di visi dai tratti somatici più diversi, tesi dietro agli schermi dei loro computer. Al termine del countdown, l’esplosione. Fuori, il rombo dei motori. Dentro, l’entusiasmo espresso in applausi, abbracci e cinque schioccati a mano alta. Anche per il lancio della navi-cella Cassini-Huygens, destinata a raggiungere Saturno e i suoi satelliti tra i quali Titano, è andata più o meno così. Quando il razzo vettore è decollato alle 3:43 del 15 ottobre 1997 da Cape Canaveral, la tensione e il sollievo di tutti gli operatori si sono scatenati in mille forme di compiacimento reci-proco, verbale e non.

Bene, ora accantonate questa immagine di concitazione. Immaginate un divano comodo e una tazza di tè. Sì, sì, un divano, una copertina e un notebook. Non è uno scenario incompatibile con la ricerca planetaria, tutt’altro. Se infatti la fase E – quella del lancio – è la fase finale della programmazione di una missione spaziale, è vero anche che poi seguono una fase F e una G e via così. E la location può essere più calma. Dal lancio nel 1997, gli scienziati della missione Cassini-Huygens si incontrano tre volte l’anno di persona e i gruppi di lavoro composti da una decina di persone ciascuno si collegano in una skype-conference per un aggiornamento di un’oretta ogni giovedì, per un totale ad oggi di 897 incontri virtuali, più o meno. Così magari capita che con i fusi orari ci si scombina e mentre qualcuno siede in ufficio nella mite California, qualcun altro discute di traiettorie orbitali e tettonica interplanetaria standosene al caldo nel suo salotto invernale a Bolzano. È successo a Claudia Notarnicola, fisica dell’Istituto per il Telerilevamento Applicato dell’EURAC, che scherza: “Per fortuna che le webcam sono disattivate, altrimenti chissà quali quadretti casalinghi vedremmo”. Claudia Notarnicola è parte del Cassini Radar Science Team che sta analizzando in particolare la superficie di Titano e ha imparato a distribuire il suo entusiasmo per la missione nella quotidianità della ricerca prolungata.  “Al di là dei tempi molto lunghi per progettare un’esplorazione spaziale, bisogna pensare al fatto che le acquisizioni di immagini sono irregolari”, spiega la fisica. “I satelliti che riprendono la Terra sono geosincroni, cioè girano intorno al pianeta sempre alla stessa distanza, oppure geostazionari, cioè rimangono fissi in un punto. In ogni caso, possiamo contare su ripetizioni di immagini a intervalli regolari. La navetta Cassini si muove invece seguendo un’orbita irregolare, che stabiliamo noi da Terra di volta in volta. Valutando insieme gli obiettivi scientifici, scegliamo dove farla passare e gli spostamenti devono essere previsti con qualche settimana di anticipo.

Il polo Nord di Titano come lo si conosceva nel 2007 e come lo si conosceva nel 2013.

Il risultato è che la mappa satellitare di Titano si è composta via via nel corso degli ultimi dieci anni giustapponendo “stri-sciate” di immagini corrispondenti ai passaggi della sonda. I primi dati sono arrivati nel 2004; fino ad allora si aveva solo l’immagine di una palla rosso-arancio. La missione Voyager che l’aveva inviata all’inizio degli anni ottanta non era riuscita a penetrare la foschia che avvolge Titano. I radar di Cassini, con una risoluzione che varia da 100 metri a un chilometro, ce l’hanno fatta e la superficie si è rivelata a poco a poco, dal nulla. E si è rivelata abbastanza simile alla superficie terrestre, con montagne e colline, laghi e mari, isole e promontori, venti, nebbie e piogge. Se non che, al posto dell’acqua, su Titano il liquido dei mari e dei fiumi, ma anche foschia e pioggia sono composti da una mistura di idrocarburi, metano in testa. L’atmosfera aranciata è dovuta a una concentrazione di gas metano del cinque per cento, migliaia di volte quella dell’atmosfera terrestre. La presenza di tanto metano è unica nel sistema solare e scatena negli scienziati una lunga serie di domande: quanto ce n’è esattamente? Quando e come si è formato? Come funziona il ciclo? È com-patibile con una forma di vita? Rispondere a queste domande significa conoscere meglio questo satellite di Saturno, ma anche conoscere meglio il processo di formazione primordiale del pianeta Terra.

Il gruppo in cui ricerca Claudia Notarnicola vuole ricostruire con precisione l’estensione e la profondità dei laghi e dunque il volume del metano presente.

“Oltre alla scelta della destinazione di Cassini, dobbiamo stabilire quali strumenti di misurazione vogliamo attivare”, prosegue Claudia Notarnicola. “Alcuni dei 27 sensori a bordo non possono funzionare in contemporanea. Per esempio il radar e l’altimetro”.

La navetta Cassini si muove seguendo un’orbita irregolare che gli scienziati stabiliscono da Terra di volta in volta.

Così, per misurare la capienza del lago Ontario, nei pressi del polo Sud di Titano, gli scienziati hanno prima impostato passaggi con il radar per disegnarne con cura i contorni. Poi hanno richiesto nuovi passaggi con l’altimetro per registrarne la profondità. Non solo, i ricercatori sono interessanti a seguire le variazioni stagionali, così hanno cercato di distribuire le acquisizioni nell’arco dei sette anni che scandiscono una stagione su Titano e ripetere le stesse misure.

Secondo le stime effettuate nel 2012 solo con dati radar, il lago Ontario ha una superficie di circa 15mila metri quadrati, 40 volte e mezzo il lago di Garda, e in media è profondo circa 30-40 metri. In totale, contiene circa 100 109 metri cubi di metano, una enormità.  Ma nuove misure congiunte radar-altimetro effettuate negli ultimi due anni potrebbero portare dei cambiamenti radicali in queste stime. E poi bisogna pensare che Ontario non è che uno degli specchi liquidi e nemmeno il più esteso. A nord ci sono i mari di Kraken, Ligeia e Punga e sparsi in giro almeno una quarantina di grandi laghi. I calcoli e le osservazioni da fare sono ancora tanti. Quando però la stima totale sarà completa, gli scienziati potranno verificare l’ipotesi che hanno formulato sulla origine di tutto questo metano: i vulcani. Se però la quantità di metano prodotta dai vulcani non combaciasse con la presenza effettiva, dovranno vagliare altre ipotesi. Come, per esempio, l’esistenza di criovulcani che invece di emettere lava incandescente emettono lava gelida e gas che possono contenere metano.

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