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Ovvero perché vale la pena investire nel cambiamento dell’Unione europea (e non nel suo smantellamento).

All’indomani delle elezioni europee, Academia incontra due costituzionalisti: Stefania Baroncelli, prorettore di unibz con delega agli studi, e Francesco Palermo, direttore dell’Istituto di studi federali comparati di Eurac Research. Una conversazione a ruota libera sul futuro dell’Unione europea, tra fiducia e consapevolezza dei rischi.

La sera del 26 maggio siete rimasti alzati fino a notte fonda ad aspettare i risultati delle elezioni?
Baroncelli: Nessuna maratona per me. Però ho seguito per tutta la giornata l’andamento delle votazioni. Se è vero che i risultati hanno confermato le previsioni, è anche vero che l’affluenza alle urne nei 28 paesi europei è aumentata: ha votato il 50,5 per cento degli elettori. Si può dire che una mobilitazione c’è stata!
Palermo: Sì, era dal 1979 che l’affluenza alle elezioni europee diminuiva. Questa tornata ha segnato un’inversione di tendenza in tutti i paesi, tranne che in Italia.

Paese dove il fronte anti Europa si è imposto, a dispetto di un contesto generale in cui il temuto assedio delle destre è stato scongiurato…
Baroncelli: Sì, seppure quella italiana sia una vittoria di Pirro. Al momento l’unico risultato per gli antieuropeisti italiani è di non aver peso nel parlamento di Strasburgo, di essere tagliati fuori dalle decisioni che contano. Perché è vero: i voti si sono polarizzati, pro e contro l’Europa, ma i nazionalismi comunicano male tra di loro. Salvini, i 5 Stelle e i paesi del Gruppo di Visegrad – al di là degli slogan contro l’Unione europea – hanno interessi troppo diversi. Non hanno una proposta alternativa purtroppo, solo contestazioni alle presunte restrizioni dell’Europa.

 

I nazionalismi comunicano male tra di loro.

Allora tutto come prima?
Palermo: Il rischio è che le coalizioni si accomodino sullo scampato pericolo e non dirigano il cambiamento. Un cambiamento che è già in atto e che è partito a livello statale: le grandi coalizioni vengono erose ovunque, da tempo. Ma come fa a cambiare un sistema istituzionale così complesso come quello europeo? Il compito che spetta ai nuovi parlamentari è coraggioso: focalizzarsi su temi forti che si possano comunicare meglio.

I Verdi potrebbero portare una chiave di lettura diversa?
Baroncelli: I Verdi hanno dimostrato di saper catturare l’attenzione delle generazioni più giovani e questo è fondamentale. Sono anche forti di un’idea di economia sostenibile che, mi pare, si sposa con una mentalità più propositiva, più collaborativa, più europea. In Italia questo approccio costruttivo, quando si parla di ambientalismo, sembra mancare. Si mantengono per lo più posizioni negative, di rifiuto, per esempio verso la realizzazione delle grandi opere, ma solo in pochi casi si punta su soluzioni innovative.
Palermo: È un dato di fatto che i temi “verdi” si stanno imponendo nell’agenda europea: da poco una risoluzione ha stabilito che entro il 2021 non potranno più circolare piatti e posate di plastica usa e getta. Peccato che in Italia non se ne sia quasi parlato.

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Stefania Baroncelli e Francesco Palermo

Effettivamente, in Italia, l’Europa è prevalentemente sinonimo di controllo, regole ingiuste, intransigenza. L’Europa non sa comunicare?
Palermo: Le istituzioni europee hanno le loro responsabilità, ma la differenza la fa il contesto nazionale. E in Italia il messaggio europeo non trova terreno fecondo. Spesso confondiamo la politica con le istituzioni: non è che senza Unione europea scomparirebbero i migranti o non avremmo limiti di bilancio. Anzi. Ma spesso preferiamo uno sterile braccio di ferro con le istituzioni invece di lavorare da dentro per cambiare le politiche.

Quanto è verosimile che l’Europa si sgretoli?
Palermo: Il fatto che Trump e Putin usino toni così aggressivi significa che il progetto Ue sta funzionando, che fa paura. L’Europa è più forte di quello che pensiamo.
Baroncelli: Siamo parte del “Vecchio continente”, ci piace mettere in discussione ogni cosa, ma siamo uniti da solidi legami culturali. Ce ne rendiamo conto quando siamo altrove: gli europei si ritrovano e si riconoscono. E poi è inimmaginabile un futuro che non punti alla internazionalizzazione.

 

Il rischio è che le coalizioni si accomodino sullo scampato pericolo.

Pensa al mondo accademico?
Baroncelli: Certo, vent’anni fa c’era l’Erasmus, oggi ci sono i titoli di studio congiunti, riconosciuti in più paesi. Ci stiamo muovendo sempre più in questa direzione. Chi studia e lavora gode della libertà di movimento, di programmi di finanziamento, di sistemi di accesso al credito più sicuri e senza inflazione. Come potremmo farne a meno?

Avete fiducia, allora.
Palermo: Sì, ma dobbiamo essere consapevoli dei rischi. Anzi, forse dovremmo ricordarli più spesso. Se l’Europa si sgretolasse, tutti quelli con capacità e risorse economiche scapperebbero altrove; gli altri crollerebbero a picco. Se l’Europa si sgretolasse, il disastro sarebbe per i più poveri e i meno innovativi. Non per niente la Svizzera, pur fuori dall’Ue, ha sottoscritto tutti gli accordi di cooperazione possibili.

Per voi, personalmente, quale sarebbe la perdita più impattante se domattina non ci fosse più l’Ue?
Baroncelli: La possibilità di viaggiare e soggiornare liberamente e i miei studenti Erasmus.
Palermo: Schengen e il roaming.

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