Massimiliano Bonacchi, docente di Accounting alla Facoltà di Economia, assieme ai colleghi Antonio Marra (Università Bocconi) e Paul Zarowin (Stern, New York University), ha esaminato i bilanci di oltre 400.000 imprese europee. Cos’hanno scoperto? Che i bilanci delle imprese non quotate, contrariamente al luogo comune che le vuole opache, sono più trasparenti e meritevoli di fiducia da parte degli investitori rispetto ad altre tipologie di aziende.

Opportunismo dei manager che adattano i bilanci alle proprie ambizioni personali o aderenza dei rendiconti alla situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa. Questi sono i due poli che, in Europa, orientano i comportamenti virtuosi o strumentali degli amministratori delle imprese. Se risulta più forte il migliore - il secondo - o il peggiore - il primo - dipende molto dalla cultura economica del Paese in cui l’azienda opera. È la conclusione a cui sono approdati i proff. Massimiliano Bonacchi (unibz), Antonio Marra (Bocconi) e Paul Zarowin (Stern School of Business) con la ricerca spiegata nel paper “Organizational structure and earnings quality of private and public firms”.

Nella comunità degli esperti di accounting e finanza, il ruolo del mercato sulla trasparenza dei bilanci delle imprese è oggetto di un acceso dibatto. Da una parte abbiamo i sostenitori della cosiddetta “Demand Hypothesis” ovvero coloro che sostengono che il mercato e le sue regole – fondamentalmente la fiducia degli investitori – siano un incentivo decisivo che spingerebbe le società quotate a presentare bilanci il più veritieri possibile. Dall’altra, sul lato della “Opportunism Hypothesis”, si situa chi afferma che la separazione tra proprietà e amministrazione delle aziende favorirebbe i giochi di bilancio di manager più attenti ai loro obiettivi che all’interesse degli azionisti, soprattutto quelli di minoranza. Questi tenderebbero infatti a “gonfiare” alcune voci di bilancio per dare un’immagine di maggiore floridità della impresa che guidano.

Per capire quale sia la posizione più convincente, è necessario mettere a confronto quella che in accounting si definisce la “earnings quality”, ovvero la capacità degli earnings di rappresentare la situazione economica finanziaria e patrimoniale dell’impresa, di imprese quotate e non quotate. Ed è precisamente ciò che hanno fatto Bonacchi e i suoi colleghi, esaminando la earnings quality di circa 400.000 aziende europee organizzate in gruppi, sia quotate che non. La letteratura finora è stata unanime nel sostenere che le imprese quotate avevano una qualità dei guadagni più elevata. Questa teoria produceva l’effetto di una perdita di fiducia degli investitori nelle imprese non quotate. I tre autori hanno messo radicalmente in discussione questa prospettiva.

L’errore commesso dagli studiosi, finora, è consistito nel considerare tutte le imprese, quotate e non, come un unicum. Il che è vero per le aziende quotate, che sono omogenee, ma non per le aziende non quotate. Quest’ultime hanno diversa struttura organizzativa - gruppi e aziende stand-alone -, una diversa pressione per la trasparenza da parte dei vari stakeholders e presentano diverse forme di bilancio, consolidato o individuale. “Per comparare mele con mele occorre guardare alle aziende non quotate che hanno una struttura organizzativa simile a quelle quotate – gruppi – simile pressione da parte degli stakeholders e presentano lo stesso tipo di bilancio – consolidato – che non è direttamente influenzato dalla variabile fiscale”, commenta il professore di unibz.

I tre economisti hanno quindi esaminato un database contenente i bilanci di imprese dei principali paesi europei: circa 12.000 quotate e 385.000 non quotate. Hanno così individuato la spia della vera earnings quality. Si tratta dell’”abnormal accrual” ovvero dell’“accumulazione abnorme di valori stimati”, una misura che identifica al meglio uno scarto sospetto tra la realtà e il bilancio presentato. Si tratta di quei valori che segnano la distinzione fra competenza economica e competenza monetaria, come i crediti relativi a vendite non riscosse, le scorte di magazzino derivanti da acquisti di beni non venduti, i debiti verso fornitori per acquisti non pagati, le quote di ammortamento dei cespiti. Quanto più questa è elevata, tanto maggiore è il sospetto che il bilancio sia stato artificialmente sovrastimato. “Questa misura è risultata maggiore nelle imprese quotate, corroborando così l’ipotesi che in generale, in Europa, le imprese non quotate presentino bilanci più aderenti alla loro situazione finanziaria ed economica”, aggiunge Bonacchi.

Un’eccezione nel panorama capitalistico del Vecchio Continente però esiste ed è rappresentata dal Regno Unito. Lì, il mercato dei capitali è talmente sviluppato per cui le imprese quotate sono garanzia di earnings quality. Tradotto in parole più semplici: i manager sono poco propensi ad adottare trucchi di bilancio per aumentare il loro tornaconto personale. “Questo è dovuto al fatto che il sistema Paese, la cultura d’impresa, in Inghilterra, esercitano un’influenza positiva. Gli azionisti sono in grado di monitorare gli amministratori, i manager furbetti vengono smascherati e puniti se manipolano i numeri a loro vantaggio”, spiega Bonacchi, “in Paesi, come l’Italia, in cui l’enforcement è debole, purtroppo vince l’opportunismo”.

Restringendo il campo all’ecosistema imprenditoriale della provincia di Bolzano, i risultati della ricerca del professore della Libera Università di Bolzano potrebbero rappresentare una buona notizia. L’Alto Adige è una terra ricca di imprese non quotate ma solide, un’ambiente ideale per venture capitalist che potrebbero essere maggiormente incentivati a scommettere su realtà produttive solide e non sottoposte ai capricci dei mercati finanziari. “Pensiamo ad aziende che sono conosciute a livello internazionale ma che, per attingere a capitali freschi, hanno deciso di non quotarsi”, conclude Bonacchi, “noi sosteniamo che proprio queste realtà produttive meritano di essere viste con occhi diversi. La ragione che noi adduciamo è confermata dall’analisi dei numeri”.

 

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