La concorrenza sul mercato internazionale è spietata. Anche big players come la Francia o l’Italia devono alternare strategie difensive e di attacco. Un buon esempio cui ispirarsi? L’Alto Adige. Parola di Stefano Castriota, economista di unibz e sommelier.

Non è stato un battito d’ali di farfalla in una remota foresta del Brasile ma una degustazione di vini a Parigi a provocare un tornado nel mercato mondiale del vino dominato, fino alla metà degli anni settanta, dai Paesi mediterranei, Francia e Italia in testa. È stata una semplice degustazione di vini, una sfida tra prodotti francesi e statunitensi in cui questi ultimi hanno primeggiato in diverse categorie. Da allora, i Paesi del Nuovo Mondo capiscono che i loro vini possono tenere testa alle decantate produzioni europee e si scatena la “guerra del vino” che coinvolge anche l’Italia. Il vino, oltre ad essere un elemento fondamentale della nostra identità culturale e gastronomica, rappresenta un settore importante dell’economia italiana. Nel 2012 il settore vitivinicolo (vini, mosti e aceto) ha costituito, con 8,9 miliardi di euro di fatturato e 4,8 di esportazioni, la voce più importante del comparto agroalimentare italiano. A ciò bisogna aggiungere l’indotto legato alla produzione di macchinari industriali, piante, servizi alle imprese e turismo enologico che sono di difficile quantificazione. Il libro scritto da Stefano Castriota (vedi pag. 37) è importante non solo perché può essere sfruttato come testo per un corso universitario di economia agraria ma perché può soddisfare la sete di conoscenza di chi, per interesse personale, vuole approfondire questa materia o per dare qualche utile indicazione pratica ai piccoli produttori che, in Italia, rappresentano la regola. “Il nostro Paese ha un grandissimo potenziale come produttore ed esportatore di vino ma ci penalizza l’eccessiva frammentazione dei produttori”, afferma l’economista che ha operato anche come consulente strategico per un’azienda vinicola del Chianti. Un’impresa gestita con metodi familiari, cui mancavano le economie di scala e dotata di scarse competenze in fatto di marketing e management. “Era l’esempio classico di tante aziende che magari producono un vino di buona qualità ma non sanno valorizzarlo”, aggiunge.

Produzione in grande stile: sili per la fermentazione dell’uva.

L’Italia, nel 2014, è stata la maggior produttrice di vino a livello mondiale e ha superato la rivale storica, la Francia. Questa riesce però a vendere i suoi vini a prezzi superiori ai nostro, fatturando il doppio, a parità di quantità prodotta. Per riprendere una metafora marziale, si potrebbe dire che le divisioni francesi sono meglio attrezzate delle nostre per combattere la guerra del vino. Si chiama così il confronto, incruento, tra i produttori storici – essenzialmente Italia, Francia, Spagna e Portogallo - e quelli affacciatisi su questo mercato dai primi anni settanta ad oggi: Stati Uniti, Australia, Cile, Argentina, Sud Africa. Si tratta di Paesi che hanno zone con un clima simile a quello delle regioni vinicole mediterranee e che si sono fatte conoscere anche dai consumatori di casa nostra. Si pensi, per esempio, alla California, negli USA, o alla regione di Mendoza, in Argentina.

Castriota è convinto che l’Italia possa vincere la guerra del vino o almeno difendersi con mezzi adeguati. Ma è necessario qualche cambiamento. Nel suo libro, indica una strada da seguire, guardando anche all’esempio dei produttori altoatesini, “che sono bravissimi”, ammette Castriota, senza celare ammirazione. La strategia di Castriota prevede sei mosse. In primo luogo, bisogna favorire l’innovazione tecnologica. Il docente è convinto che in Italia, ma anche in Europa, nel campo dell’enologia si sconti un approccio poco ricettivo verso le nuove tecnologie, cosa che non avviene altrove. Ad esempio, negli Stati Uniti, dove si utilizza addirittura un sistema basato sull’utilizzo dei trucioli per barricare artificialmente il vino. “Senza arrivare a questi eccessi, credo che non si debba avere paura di distaccarsi dalla tradizione, pur mantenendo alta la qualità del prodotto”, puntualizza Castriota. Le aziende devono inoltre creare consorzi per la tutela dell’origine, disciplinare la produzione per mezzo di regole rigorose per migliorare gli standard di qualità, evitando di cedere alla tentazione di abbassarli. “Nel lungo periodo ci si rovina la reputazione e dopo è molto costoso, se non impossibile, recuperare il terreno perduto”, chiarisce il docente. Secondariamente, occorre lavorare sul marketing e sull’introduzione di un chiaro sistema di classificazione dei vini. I marchi collettivi sono molto efficaci per promuovere il vino all’estero ma è necessario sfoltire l’attuale giungla di certificazioni: “Nel 2008 in Italia c’erano 479 denominazioni di origine controllata. Vanno ridotte”, avverte l’economista. Le attuali certificazioni sono un’espressione burocratica ma hanno poco significato per i consumatori, per di più stranieri. Il sistema di classificazione non deve essere statico ma funzionare come un campionato: una sorta di Champions League del vino, cui accedono solo i migliori. Ci sarà chi è dentro e chi rimane fuori, ma si collegherà la qualità al prezzo, ovvero alla prestazione. In aggiunta, dovrebbe essere introdotto un meccanismo che ciclicamente permetta ai migliori di salire in graduatoria e faccia retrocedere i peggiori, come nella serie A e serie B.

L’Italia è penalizza dall’eccessiva frammentazione dei produttori.

Il terzo passo è rendere competitivi i produttori, troppo spesso piccoli, attraverso l’adozione di economie di scala e l’incentivo a fusioni e acquisizioni di aziende piccole da parte di imprese di dimensioni maggiori. La quarta mossa è una modifica del sistema fiscale che potrebbe portare anche a un aumento della qualità del vino. Come? “Diminuendo l’Iva e aumentando l’accisa sulla bottiglia”, chiarisce Castriota. “Questa, essendo la stessa a parità di alcol - sia su una bottiglia da un euro che su quella che costa 100 euro – scoraggia una produzione di bassa qualità”. Il quinto punto, a ben vedere, consiste nella scommessa su un vantaggio di cui l’Italia già dispone: la vastità del suo patrimonio ampelografico, ovvero la varietà di vitigni autoctoni. Castriota è certo: “La varietà è un bene. Se passano mode e il produttore è legato a un’unica varietà, come è successo all’Australia con il Syrah, il fallimento è dietro l’angolo”.

 Last but not least, anche l’intervento dello stato italiano non è trascurabile, almeno per incentivare un consumo consapevole e di qualità sul suo territorio. Nella penisola, si beve meno vino rispetto al passato, per due ragioni: l’età media della popolazione si è alzata e i modelli di consumo dell’alcol, rispetto ai nostri nonni, sono mutati. Secondo Castriota, questo calo del mercato interno di vino è parzialmente compensato dal fatto che si beve vino migliore e quindi più caro. Ma sarebbe possibile fare molto di più, promuovendo una cultura del vino adeguata ai tempi. “Associare campagne di prevenzione dell’alcolismo a quelle di educazione al bere bene e responsabilmente – affinché le persone, giovani e adulti, sappiano cosa bevono – porterebbe a invertire la tendenza al declino del consumo di vino in Italia”, afferma l’economista che individua nei produttori altoatesini, nella loro strategia organizzativa, produttiva e di commercializzazione una best practice cui dovrebbe ispirarsi il resto dei produttori italiani. A parere di Castriota, “l’Alto Adige è una regione eccezionale. Ha un grande potenziale che è stato espresso benissimo, unendo l’eccellenza nella qualità del vino e il marketing”. Ciò che ha fatto la differenza è stato il modello cooperativo adottato a nord di Salorno che, diversamente da analoghi modelli dell’Emilia Romagna e del Trentino – che puntano sulla produzione di vino da pronta beva, di qualità inferiore – porta le cooperative a produrre un vino di eccellenza, allo stesso livello qualitativo di quello realizzato dai privati. “Probabilmente una grande influenza in questo senso la fa il capitale sociale locale, inteso come il rispetto delle regole e l’interesse comune che porta i soci delle cooperative a non massimizzare le quantità bensì a lavorare sulla qualità, giocando di squadra a vantaggio di tutto il sistema produttivo”.

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