Le esperte di violenza di genere lo chiamano paradosso nordico. Un fenomeno sul quale il mondo scientifico si interroga. Il punto è questo: perché, in Paesi dove le pari opportunità di genere sono consolidate, quelli scandinavi, il fenomeno della violenza sulle donne non diminuisce? Sono per lo più donne le artefici di questi studi. Una di loro è Marina Della Rocca, giovane ricercatrice, antropologa, appassionata operatrice nei Centri antiviolenza. Con la sua tesi di dottorato ha seguito il doppio binario dello studio e della pratica sul campo, concentrandosi sulla violenza di genere nelle donne con background migratorio.

Quali sono i numeri in Alto Adige?
Più o meno la proporzione è la stessa che si riscontra a livello nazionale: generalmente il 30 per cento delle donne ha subito violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita. Ogni anno in Alto Adige si rivolgono ai Centri antiviolenza all’incirca 600 donne, un dato che non considera il sommerso, che si attesta sul 50 per cento minimo. Quindi vuol dire che in alto Adige ogni anno le donne in questa condizione sono almeno il doppio. Di queste 600, circa il 30 per cento sono donne con background migratorio. Bisogna però considerare che ci sono molte donne autoctone che non si rivolgono ai centri antiviolenza perché trovano strategie autonome facendo ricorso alla rete parentale e di conoscenze. Le donne con background migratorio che si trovano in una situazione di violenza possono contare meno su una rete informale sul territorio Questo spiega perché nelle strutture protette la percentuale di donne con background migratorio è spesso un po’ più alto rispetto alle donne autoctone: sono tra il 50 e il 60% delle donne accolte nelle strutture protette.

Come nasce il connubio tra l’attività di operatrice dei centri antiviolenza e l’idea di avventurarsi in un dottorato di ricerca?
Dopo i miei studi di antropologia, nei quali comunque mi ero già interessata a questioni di genere, ho lavorato in un centro antiviolenza per quattro anni: un’esperienza che è stata un punto di osservazione privilegiato rispetto alle difficoltà che le donne incontrano nei percorsi di uscita. Mi sono focalizzata proprio sul background migratorio. Osservando, appunto, le difficoltà specifiche, ho pensato di proporre una ricerca di dottorato che esaminasse proprio le barriere che le donne con background migratorio incontrano nel momento in cui si rivolgono ad un centro antiviolenza. E come tali barriere, in qualche modo, influenzano anche il lavoro di sostegno sia dei centri antiviolenza che dei servizi correlati: i servizi sociali, i consultori, gli enti e le forze dell’ordine.

Quali sono le specificità e le barriere?
Facciamo l’esempio di una donna migrante in Italia con un permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare. Il suo permesso di soggiorno dipende dal marito che l’ha portata in Italia. Nel momento in cui viene avviata la separazione decade il permesso di soggiorno. Siamo di fronte ad una barriera legale. Sicuramente i centri antiviolenza hanno una sensibilità specifica che tiene conto delle particolari vulnerabilità delle donne con background migratorio. Tuttavia, accade che i centri antiviolenza stessi non siano in grado di superare queste barriere, perché trattasi molto spesso di ostacoli di ordine normativo, economico, sociale e culturale che vanno al di là dell’operato di un centro antiviolenza. Per cui succede che si debbano adottare delle strategie non sempre risolutive. Se decade il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, si può optare in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro o per la tutela di eventuali minori, ma l’iter non è facile e ottenere un lavoro per una donna migrante, sola con figli non è facile. Un altro ostacolo sono le forme di razzismo che si riscontrano nella quotidianità e che producono barriere nell’accesso al mondo del lavoro e alla casa. Se è vero che l’indipendenza materiale è lo strumento di riscatto da una situazione di violenza e dalla separazione che ne consegue, la donna migrante si trova di fronte a ostacoli maggiori. Perfino nei servizi emergono difficoltà dovute alle forme di culturalizzazione, laddove si attribuisce ai vissuti e all’esperienza delle donne con background migratorio difficoltà associate alla cultura di provenienza. Finisce per essere, di fatto, una forma di razzismo, perché non indaga i problemi strutturali o contingenti - che poco hanno a che vedere con la cultura di riferimento. Piuttosto sono legati allo spaesamento del processo migratorio e alle barriere strutturali insite nell’immigrazione.

A volte si ritiene che una donna fatichi ad affrancarsi dalla situazione di violenza perché viene da una ‘cultura’ dove la violenza viene maggiormente accettata.

Questo è chiaramente un luogo comune, nel senso che non è questo il punto. Il punto è che la donna immigrata e maltrattata vive difficoltà legate alla condizione di isolamento che la violenza alimenta, che impedisce di apprendere la lingua, di conoscere il territorio e i servizi che offre. Di fronte a barriere come il permesso di soggiorno, poi, la difficoltà diventa insormontabile. Allora, per assurdo, lo stare in casa e sopportare la violenza appare più gestibile che uscire dal nucleo familiare: è una situazione dolorosa ma nota, nella quale la donna cerca di attivare delle strategie che risultano per lei meno spaesanti rispetto alla scelta di proiettarsi in una dimensione che appare oscura e fumosa.

Marina Della Rocca, antropologa e ricercatrice

In sostanza l’affrancarsi dalla violenza è un dato indipendente dalla cultura di provenienza…
L’incidenza della cultura d’origine è relativa rispetto alla condizione sociale e al contesto di provenienza della donna migrante: se proviene da un contesto rurale o urbano, se ha già un certo grado d’istruzione o meno, se lavorava, se la famiglia d’origine è aperta o tradizionalista… Tutti fattori trasversali, veri per molte culture. Certo, ci sono dei luoghi dove la situazione delle donne è oggettivamente più difficile dal punto di vista istituzionale, giuridico, laddove non vengono riconosciuti tutta una serie di diritti che favorirebbero il cambiamento. Oppure vi sono contesti dove le leggi promuovono pari diritti ma la situazione socioeconomica è talmente precaria che non esistono servizi di supporto alle donne che vivono situazioni di violenza. A volte manca il supporto della famiglia d’origine che quando esiste facilita i processi di liberazione dalla condizione di violenza.

Torniamo all’attività di ricerca: la tesi di dottorato e la nuova ricerca sotto la supervisione di Dorothy Zinn, docente di Antropologia culturale alla Facoltà di Scienze della Formazione.
Entrambe le ricerche hanno uno scopo ben preciso: cercare di sviluppare delle pratiche che considerino le specifiche vulnerabilità delle donne con background migratorio, pratiche da tradurre in lavoro operativo specifico nei centri antiviolenza. La ricerca attuale, finanziata da unibz, si estende fino ad esplorare le definizioni che le donne stesse danno di alcuni concetti sottesi alle situazioni di violenza: l’essere donna, la definizione proprio di ‘violenza sulle donne’, il concetto di empowerment delle donne – inteso come percorsi possibili di uscita o di prevenzione della violenza - e anche il concetto di onore in relazione alla cosiddetta violenza basata sull’onore che riguarda soprattutto le giovani. Questa esplorazione vuole portare una comprensione interculturale della violenza di genere e dell’empowerment femminile, aprendo lo sguardo rispetto a vissuti di mondi culturalmente diversi, socialmente diversi e poi influenzati anche dai processi migratori. Il contributo della ricerca è quello di trovare, attraverso la prospettiva delle donne stesse, le loro esperienze e le loro opinioni, la loro voce, una definizione più ampia di violenza sulle donne, di empowerment femminile e anche delle pratiche operative che tengano in conto le barriere generate dal processo migratorio.

Cosa si intende per onore?
È un concetto molto complesso. Quando si riferisce alle dinamiche della violenza sulle donne riguarda il controllo della sessualità e della libertà di scelta delle donne. All’interno della famiglia può portare a un controllo del comportamento morale delle componenti femminili. In questo senso la vulnerabilità delle donne con background migratorio segue lo stesso filo rosso della violenza come è stata intesa in occidente: una forma di controllo esercitato tra le pareti domestiche. Da ciò si evince che il concetto di onore non va osservato in maniera stereotipata, pensando che riguardi solo determinate culture, ma con uno sguardo ampio, che consideri, però, i diversi modi nei quali - nei diversi contesti e in base all’esperienza complessa delle donne - si vengono a declinare questi concetti

Esiste una tradizione accademica per questo genere di studi?
Non sono ancora molto diffusi, anche se sono in aumento. Di recente è nata UNIRE (Università in rete contro la violenza di genere), un network che fa capo a Milano Bicocca composto da 9 università. Bolzano non ne fa ancora parte. Il mio lavoro, sotto la supervisione della professoressa Zinn, è il primo che tratta in modo strutturato questa specificità presso Facoltà di Scienze della Formazione.

Ci sono anche accademici che si dedicano a questi temi?
Se si considera l’aspetto prettamente criminologico o giuridico ci sono studi condotti anche da uomini, mentre negli studi sociologici, antropologici, pedagogici prevalgono le donne. La violenza domestica di genere è, di fatto, un ambito di esplorazione recente; si sono privilegiati altri ambiti di ricerca legati alla disuguaglianza o a fenomeni molto eclatanti come ad esempio il fenomeno della tratta, o la violenza all’interno dei conflitti, i cosiddetti stupri di guerra. La violenza domestica comincia a entrare nelle università qualche decennio fa sulla spinta dei movimenti femministi. In antropologia, che è la mia disciplina, si è assistito, dagli anni ’70 in poi, a una rivalutazione dell’approccio alle questioni di genere. Nel sottolineare la disparità storica, i movimenti femministi hanno evidenziato l’influenza che la visione patriarcale della società aveva sulle stesse discipline accademiche. La questione, poi, delle donne con background migratorio emerge solo di recente in Italia, rispetto ad altri Paesi, perché l’Italia è una terra di più recente immigrazione… ma il tema di vulnerabilità specifiche di donne di altre appartenenze ha una tradizione e si è già posto, ad esempio, negli Stati Uniti per le donne afro-discendenti, soggette a forme di razzismo istituzionale, interpersonale, e di discriminazione socio-economica al di là dell’immigrazione. Oggi nel contesto italiano - come accade da diversi decenni nel contesto europeo - la questione immigrazione porta tutte una serie di problematiche aggiuntive legate proprio al processo migratorio.

Quale apporto sogna di dare come ricercatrice?
Poter suggerire alla rete territoriale delle strategie che rispondono meglio all’esigenze di empowerment delle donne con background migratorio che subiscono violenza. Allo stesso tempo spero che gli approcci interpretativi possono andare al di là del contesto locale e si possono ricollegare ad altri studi che contribuiscano a riscattare il tema dalla marginalità portando a strategie politiche internazionali condivise. Penso a strumenti come il Rapporto Ombra delle ONG italiane sull’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia, a cui io stessa ho partecipato, rispetto alle problematiche del permesso di soggiorno delle donne migranti che subiscono violenza. Comunque vada, sarà per me sempre un work in progress. La società è complessa e certe posizioni populiste e demagogiche veicolate dai social media non fanno altro che peggiorare la situazione delle donne. Quando si dice – ad esempio - che bisogna salvare le donne straniere dalla loro cultura… è un grandissimo errore, un luogo comune diffuso, fondato su visioni fuorvianti degli uomini violenti che non tengono conto delle dinamiche trasversali ai contesti. Frasi del genere alzano barriere e affaticano il dialogo con le comunità di migranti.

Immagine: Absalom Robinson (Pexels).

 

 

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