Durante la Prima guerra mondiale, migliaia di abitanti dei territori di Trento e Trieste, partiti per il fronte come soldati dell’imperatore Francesco Giuseppe, passarono dalla parte del Regno d’Italia durante la detenzione nei campi di prigionia in Russia e, per molti di loro, la strada del ritorno fu interminabile, con stazionamenti in Siberia e in Cina. Andrea Di Michele, storico e professore alla Facoltà di Scienze della Formazione, ci racconta le vicende della Missione militare italiana in Oriente, da lui ricostruite nel saggio “Prigionieri irredenti dalla Russia alla Cina, 1917-1920”.

Andrea Di Michele, chi erano i soldati “irredenti” che arrivarono in Cina?

Erano soldati che avevano iniziato la guerra un anno prima rispetto ai loro connazionali del Regno d’Italia che entreranno nel conflitto dal 1915 e che vennero inviati sul fronte orientale, in Galizia, il principale fronte di guerra austriaco all’epoca, a combattere contro i russi. Nel 1915 si aprirà anche il fronte austro-italiano e quindi gli italiani d'Austria - che provenivano dal Trentino, da Trieste, dal litorale Adriatico e dall’Istria – vennero sempre mandati sul fronte orientale perché si temeva che, combattendo contro i soldati del Regno d’Italia, potessero essere tentati dalla prospettiva della diserzione o comunque fossero restii a impegnarsi nella battaglia contro un esercito formato da persone della stessa lingua.

Di quali numeri stiamo parlando?

Possiamo calcolare in circa 100.000 i soldati di lingua italiana inviati a combattere ad Est. Moltissimi di questi - circa 25.000 - finirono prigionieri in Russia. Nel 1915 l’Italia entra in guerra contro gli Imperi a fianco della Russia che comincia ad attuare una politica delle “nazionalità, dividendo i prigionieri sulla base della lingua. In particolare gli italiani vengono accolti nel campo di Kirsanov, nella Russia sudoccidentale.

Questo campo è stato definito un’”oasi di italianità”. È da lì che si dipana la vicenda che porterà i soldati italiani d’Austria-Ungheria in Cina?

Sì. Una volta informato dai russi, il governo italiano organizzò una missione militare per interrogare i prigionieri e cercare di capire se fossero affidabili e potessero essere portati in Italia. In seguito, circa 4.000 uomini, tra settembre e ottobre 1916, vennero trasportati da Kirsanov al porto della città di Arkhangelsk sul Mar Bianco da lì imbarcati e, dopo un lungo viaggio via mare e il passaggio in Gran Bretagna e Francia, arrivarono a Torino. Costoro non vennero subito rispediti alle famiglie: in parte perché avevano abitato in territori che appartenevano ancora all’Austria e in parte perché li si voleva tenere sotto controllo. I prefetti delle città inviavano rapporti sul loro comportamento al Ministero degli Interni sottolineando la necessità di non impiegarli nell’industria bellica, settore industriale particolarmente delicato. Inserire questi cittadini ancora formalmente austriaci, e potenziali quinte colonne, in una produzione strategica veniva considerato piuttosto rischioso. 

Per quale ragione si interrompono le partenze da Kirsanov?

All’inizio dell’inverno il Mar Bianco sostanzialmente non è più navigabile a causa del ghiaccio e quindi le partenze dal campo si bloccano. Nel 1917 in Russia si apre una fase particolarmente convulsa e complessa che condurrà alla presa del potere dei bolscevichi. A metà del ‘17 ci sono ancora circa 3 mila prigionieri italiani che si trovano in una situazione sempre più difficile, a tratti anche drammatica, perché la crisi politica rende tutto molto più complicato. Ad esempio, gli approvvigionamenti alimentari ai campi di prigionia diventano sempre più difficoltosi. Ci sono momenti in cui i prigionieri non ricevono praticamente nulla da mangiare. È in questa fase che si decide sostanzialmente un piano di trasferimento a est di questi prigionieri. C’è anche il timore, da parte italiana, che, a seguito di una pace separata della Russia con l’Austria-Ungheria e con la Germania, avvenga uno scambio di prigionieri tra questi paesi e quindi che i prigionieri di lingua italiana possano finire nelle mani dell’Austria e considerati dei traditori, essendosi dichiarati disposti a passare dalla parte dell’Italia. 

Andrea Di Michele, storico e professore alla Facoltà di Scienze della Formazione.

Come si comportò la missione militare italiana?

Si rese conto dei pericoli e anche dell’impossibilità di garantire il sostentamento a questi uomini. Fu per questo che organizzò il trasporto verso est con la Transiberiana che durante la guerra continuò a funzionare. Nel dicembre del ‘17 ebbe inizio un’avventura incredibile. I prigionieri vennero caricati sui treni, a scaglioni di una cinquantina di uomini, con destinazione Vladivostock: il porto che in teoria avrebbe dovuto consentire loro di imbarcarsi verso gli Stati Uniti e di tornare in Europa. Nel febbraio del 1918 erano circa 2.500 gli italiani sulla costa del Pacifico in attesa di questo imbarco.

In che condizioni si trovavano questi uomini?

Molto difficili. Avevano trascorso anni in prigionia e patito fame e temperature glaciali. Le memorie scritte di questi soldati raccontano un freddo intollerabile, fino a -40. Insomma la loro situazione era veramente estrema.

Quindi cosa successe?

Avvenne che l’Italia decise di portarli in Cina, a Tientsin, dove le potenze occidentali, a partire dall’inizio del ‘900 avevano ottenuto “concessioni militari”. In pratica si trattava di pezzi di città in gestione agli occidentali dopo la rivolta dei boxer.

Qual era la situazione politica in Cina, all’epoca?

Non era delle più semplici: nel 1911-1912 era stata proclamata la repubblica e il Paese era in una fase di estrema debolezza, con una forte presenza anche politico-militare da parte del Giappone. Era la fase in cui si era affermato il partito nazionalista cinese del Kuomintang e, pertanto, la presenza di queste concessioni militari, in particolare questa di Tientsin, veniva vista con una certa irritazione, come un’intrusione. L’Italia in quella fase non vide altra soluzione che sistemare i suoi soldati irredenti a Tientsin, in cui c’era una presenza consolare italiana, dietro la promessa - sempre molto molto vaga - di poter rientrare in Italia. Ma i viaggi non erano semplici da organizzare. Due piccole spedizioni ce la fecero e vennero inviate a San Francisco, dove furono accolte dalla comunità italo-americana. In seguito, attraversarono gli Stati Uniti arrivando alla costa sud-occidentale da cui si imbarcarono per Genova, compiendo letteralmente il giro del mondo. Si trattò di poche centinaia di uomini, tra i più provati e anziani, sfruttati come strumento propagandistico dalle autorità italiane. Nella corrispondenza tra la presenza consolare in Cina e il Ministero degli Esteri italiano, si affermava in maniera molto esplicita: “Utilizziamo questi soldati austriaci come un manifesto per mostrare all’opinione pubblica che questi sono italiani e che vogliono diventarlo”. Vennero quasi portati in trionfo nelle comunità italo-americane, si organizzarono eventi – ad esempio, un concerto con il tenore Enrico Caruso – , finirono sui giornali. Sostanzialmente vennero utilizzati per dimostrare l’italianità dei territori che l’Italia intendeva annettersi. La maggior parte dei soldati però restò in Cina, dove si pensò anche di impiegarli in azioni antibolsceviche. A quel tempo stava crescendo sempre più la paura che la rivoluzione leninista potesse uscire dai confini russi e, pertanto, si decise di inviare una missione militare a sostegno dell’Armata bianca.

Tient Tsin, 1 agosto 1918, cerimonia per il giuramento dei volontari irredenti.

Chi vi partecipò?

Diversi stati occidentali, tra cui il nostro. Ma l’Italia era piuttosto debole e faceva fatica a mettere in piedi una spedizione militare. Allora vennero buoni i soldati di origine austroungarica stanziati a Tientsin, che furono usati per formare il corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente. Si cercò di farli riprendere dal punto di vista fisico e psicologico: vennero trattati bene e alimentati mentre li si inquadrava militarmente. Alla fine, se ne ottennero circa 800 volontari, inquadrati in maniera formale come i “battaglioni neri”. Assieme a questi ex-prigionieri, contemporaneamente alcune centinaia di uomini vennero fatti partire dall’Italia: perlopiù siciliani e sardi che, assieme a trentini e triestini, composero il corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente.

Come vennero arruolati?

Sotto questo aspetto, è necessario fare una nuova valutazione. Leggendo i rapporti dei vertici militari italiani in Cina, le adesioni vengono presentate come completamente volontarie, come scelte consapevoli di persone convinte di voler combattere per il Regno d’Italia che li accoglieva nelle proprie braccia. Diversa è l’immagine che ne ricaviamo leggendo i diari e le lettere dei soldati. In molti casi capiamo che non c’è una grande consapevolezza. Molti pensavano che un arruolamento formale in un corpo militare italiano ne avrebbe accelerato il ritorno in Italia. Poi si ritrovarono delusi e si chiedevano perché dovevano essere rimandati in Siberia a combattere.

Quanto erano informati sugli sviluppi bellici in Italia?

Queste persone non recidono quasi mai il filo di comunicazione con le famiglie. C’è uno scambio epistolare abbastanza costante tra i reclusi nei campi di prigionia e i loro cari che, in molti casi, erano stati sfollati dai paesi d’origine. I trentini (donne, anziani e bambini) vennero trasportati in altre regioni dell’impero austro-ungarico; coloro invece che vivevano nelle zone più meridionali del Trentino occupate dall’esercito italiano furono sfollati in diverse regioni italiane. Queste famiglie continuarono a comunicare con i prigionieri nei campi di prigionia e noi abbiamo le trascrizioni di queste lettere e delle cartoline. In molti casi non le ritroviamo in originale ma nel lavoro di analisi e di selezione molto accurato svolto dalla censura austriaca. L’ufficio predisposto all’analisi della corrispondenza leggeva con estrema attenzione e cercava di capire chi fossero questi prigionieri italiani.

Vladivostok (Russia). I militari italiani irredenti del comando italiano al "presentat'arm" in onore del maggiore Cosma Manera.

Per quale ragione?

Sia da parte italiana che da parte austriaca c’era un’attenzione spasmodica, quasi ossessiva, per tentare di capire come considerare quei soldati. Attraverso gli interrogatori della missione militare italiana o con lo studio della corrispondenza, si cercava di capirne l’autenticità dei sentimenti nazionali. In realtà, i soldati cercavano sostanzialmente di capire come uscire vivi da una situazione ai limiti, dopo anni di prigionia in Russia. Le decisioni assunte nei campi di prigionia non sono il frutto di una scelta di campo nazionale ma di considerazioni molto più concrete. Lo scambio epistolare con la famiglia ci aiuta molto anche a capire come vengono prese queste decisioni: ad esempio, la moglie avverte il marito di non fare come un compaesano che aveva scelto l’Italia e, in conseguenza della sua scelta, la famiglia aveva perso il sostegno da parte dell’amministrazione austriaca. Si tratta di famiglie con figli piccoli da mantenere. Emerge frequentemente una certa tensione tra il soldato che vorrebbe a tutti i costi scappare dai campi e che vede in questa offerta italiana un’offerta allettante e la famiglia che invece lo esorta a rimanere austriaco per non dover subire conseguenze. Inoltre dagli scritti dei soldati emerge in maniera molto chiara che la maggior parte di loro sentiva di appartenere al paesino o, al massimo, alla valle da cui erano partiti. Tra trentini e triestini c’era diffidenza. C’è chi nei campi di prigionia scrive: “Finché eravamo soltanto noi tirolesi andava tutto bene. Adesso che sono arrivati anche questi triestini, iniziano a sparire delle cose”. Le istituzioni dei due stati e i soldati ragionavano su due livelli totalmente diversi: per i soldati si trattava sostanzialmente di riportare a casa la pelle e di non mettere in pericolo la famiglia.

In quel clima di tensione, ci furono rivolte?

Alcuni si ribellarono e le istituzioni temettero che il “germe” del bolscevismo avesse contaminato le truppe. In realtà quelle rivolte, incrociando le fonti, più che politiche sembrano legate all’esasperazione di chi aveva ricevuto tante promesse, si era esposto e aveva corso dei rischi senza ottenere di poter tornare a casa. Da parte cinese, inoltre, si visse con una certa irritazione il tentativo messo in atto dagli italiani che, a un certo punto, cercarono di scaricare sugli stessi soldati la responsabilità dello scontento, affermando che chi si ribellava lo faceva perché si trattava di “austriacanti”. Si cercò quindi di scaricare costoro ai cinesi dicendo “teneteli nei vostri campi di prigionia perché sono da considerarsi prigionieri austriaci”: I cinesi non ci stettero e rinfacciarono che la selezione era stata effettuata da parte italiana.

Come vennero gestiti i ribelli?

C’è una corrispondenza anche piuttosto tesa tra le autorità italiane e quelle cinesi su come farlo. Rimasero effettivamente a lungo in mano cinese e poi vennero restituiti agli italiani. Con l’affermarsi di un nazionalismo cinese, si inizia a vedere sempre con maggior fastidio questa presenza militare di occidentali sul territorio. Di fatto quei cosiddetti ribelli poi scriveranno delle lettere di scusa, dichiarando esplicitamente la loro italianità. Torneranno in Italia piuttosto tardi, come il corpo di spedizione mandato in Siberia, non senza un atteggiamento punitivo.

Cosa ne fu dei soldati, al rientro in Italia?

Ci furono diversi percorsi individuali. Quasi tutti tornarono nei territori del Trentino e del Litorale ormai diventati italiane. Va sottolineato che questi soldati ex-austriaci quando rientrano, in larga maggioranza non tornano direttamente ai loro paesi ma vengono raccolti in campi che possono essere considerati sia di smistamento che di selezione e controllo, dove vennero sottoposti a veri e propri interrogatori e analisi sul loro atteggiamento. Il timore non era più tanto il sentimento di appartenenza all’Austria ma che fossero stati traviati dalle idee bolsceviche, come effettivamente fu per alcuni. Tutti coloro che avevano vissuto un’esperienza bellica in Russia vennero visti come pericolosi proprio dal punto di vista politico e quindi dovettero attendere diversi mesi prima di poter andare a casa. Questo modus operandi lo ritroviamo non soltanto in Italia ma anche in altri Paesi. Ad esempio, sul territorio austriaco si verificarono veri e propri atti di insubordinazione, di ribellione da parte dei soldati, ma senza un orientamento ideologico. Si trattò, anche in questo caso, di reazioni all’insostenibilità della vita militare, di una guerra che dura anni senza approvvigionamenti alimentari quindi ideologico. Altrettanto con certezza si può però dire che un certo numero di questi prigionieri vennero coinvolti nel processo rivoluzionario. Ce n’è uno che ad esempio dice: “Nel mio paese ero un tipografo e quando mi chiedono di stampare i primi manifesti dei bolscevichi rivoluzionari, sono molto contento di farlo”. Sappiamo che alcuni trentini, tra quelli che avevano partecipato ai combattimenti con l’Armata Rossa, furono più attivi politicamente ed ebbero un ruolo nella politicizzazione dell’ambiente in cui tornarono a vivere, fondando spesso la sezione del Partito Comunista locale. Il timore della contaminazione ideologica non era totalmente infondato ma venne sicuramente esasperato a livello istituzionale.

Il saggio di Andrea Di Michele è contenuto in “Cosa videro quegli occhi! Uomini e donne in guerra. 1913-1920. Vol. 2” curato dal Laboratorio di storia di Rovereto.

 

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