Il primo incontro con un’opera d’arte sconosciuta.

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Il sipario del XXI secolo si è aperto, da un lato, con movimenti di popoli sospinti da tragedie; dall’altro, con la possibilità di volare ovunque low cost. Due estremi di una globalizzazione che interessa anche l’arte. Di questo abbiamo parlato con la professoressa Emanuela de Cecco, docente di Storia dell’Arte alla Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano. Che inizia ripercorrendo le tracce del segno lasciato dall’arte del XX secolo.

Cosa dice oggi l’arte?
De Cecco: È una domanda complicata, sono necessarie premesse. Studiando la storia del XX secolo, l’arte presenta ambivalenze. Penso al fatto che sia stata utilizzata dai regimi, penso alle immagini potenti e ‘tragicamente spettacolari di certe parate naziste nei film di Leni Riefenstahl. In parallelo si sviluppa un’altra storia, di confronto con la realtà, di resistenza e di ricerca. Durante e dopo la Prima Guerra Mondiale i dadaisti hanno costruito una rete di relazioni internazionali ante litteram, hanno inventato un linguaggio che ha reso tangibile la follia della guerra e, in alcuni casi, anche un modo per rielaborarne i traumi.

Parla di arte o di critica d’arte?
De Cecco: Per me non c’è distinzione. La critica dell’arte implica un ragionare sul ‘come’ e permette di uscire dall’idea che esista una narrazione unica: è solo così che possiamo capire chi e per quale motivo è stato fino ad un certo punto escluso dalla storia: le artiste donne, i cosiddetti ‘primitivi’…. Per quanto oggi non sia molto di moda, l’arte come pensiero critico, resta la matrice identitaria del XX secolo.

E come si declina oggi questo ‘sguardo contro’ tipico dell’arte del secolo scorso?
De Cecco: Dalla caduta del muro di Berlino (1989), il mondo dell’arte si è ampliato a dismisura: siamo in un mondo globalizzato e l’accelerazione disorienta. L’arte è anche un veicolo di aspetti spinti della globalizzazione, ci sono musei meravigliosi che difficilmente si conciliano con l’idea di un’arte come pensiero critico. Ma lo “sguardo contro” esiste eccome, si tratta di continuare a cercare… Scenari dispersivi.

Come riconoscere allora l’artista?
De Cecco: Attraverso l’incontro con le opere innanzitutto. Poi possono nascere relazioni di prossimità con artisti, condivisioni, può nascere uno scambio… Si procede per indizi che permettono di leggere la realtà.

Dunque, su quale piano opera oggi l’arte?
De Cecco: A me interessa sia ritrovare nell’arte la presenza di un piano sensibile, umano, dove è possibile trovare un respiro che la logica dell’efficienza 24 ore su 24 non consente, sia i diversi modi in cui gli artisti contribuiscono alla rielaborazione di traumi personali e collettivi.
Come già accennato in precedenza, tutto questo coesiste con la tendenza a semplificare il linguaggio, nel timore che il pubblico “non capisca”. Si parte spesso dal ‘significato’ di ciò che l’artista ha messo in campo ma io penso che abbia più senso occuparsi della dimensione dell’incontro, del dialogo, individuando cosa ‘ci riguarda’ di un’opera.

Mi faccia capire meglio…
De Cecco: Per metafora: quando si conosce qualcuno, si scambiano due chiacchiere, magari si beve un caffè e da lì in poi si capisce se c’è interesse ad approfondire la conoscenza. Non si inizia con domande che implicano intimità. Così avviene anche nell’incontro con opere che non conosciamo: se non ci blocchiamo a volere conoscere prima di tutto il significato ma ci arriviamo avvicinandoci per gradi, acquisiamo maggiore libertà. Anche la libertà di affermare che un’opera non ci riguarda.

Un artista contemporaneo?
De Cecco: Farei il nome dell’albanese Adrian Paci, che utilizza vari media. Arrivato nel 1992 in Italia con una borsa di studio. È un interprete della contemporaneità, riesce a coglierne e rielaborarne le stratificazioni temporali. È capace di agire la dimensione politica senza retorica e di intrecciarla con quella sensibile.

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